Cammino in un giardino di incommensurabile grandezza, la cui enormità sussiste nella ripetizione di uno spazio topologico infinite volte. Un reiterarsi frattale di isole galleggianti e architetture non euclidee che puntellano un paesaggio metafisico come vestigia sotto spirito di una civiltà perduta — o forse mai esistita —, capriccio di un demiurgo col pallino dell’architettura impossibile: torri pantagrueliche circondate da rampe di scale elicoidali, cattedrali di dimensioni ciclopiche, pozzi di Chand Baori ripiegati su se stessi a formare sfere di Dyson dall’aspetto ancestrale, e poi ancora statue, altari, colonne, plinti e tutta una serie di elementi neoclassici rivisitati attraverso un’estetica lowpoly, che si estende fin dove l’occhio può arrivare. Poi cos’è che rimane? Oh sì, giusto, gli alberi — dopotutto che giardino sarebbe senza? Si tratta beninteso di alberi molto strani, dall’aspetto quanto mai artificiale e con radici che si inseriscono sotto la superficie levigata dei pavimenti — anche se non è dato sapere né come né dove essi traggano nutrimento. Ma ancor più strani sono i frutti che crescono sui loro rami ad angolo retto: cubici, duri come il legno e assolutamente non commestibili. 

 In questo luogo non c’è sole, né stelle, né traccia del tempo che scorre, ma una sola inestinguibile luce, tale da inghiottire tutti gli oggetti posti in lontananza. Tuttavia, il fatto che questi oggetti siano lì, oltre il velo luminoso, tali e quali a quelli dove poggiamo i nostri piedi, è una delle poche cose certe del giardino. Come dicevo, l’enormità di questo luogo sta nella ricorsività. C’è poi un altro elemento sulla cui immutabilità si può fare assoluto affidamento ed è la varietà. Quella geometrica, si intende — che, sia detto per inciso, non ho la minima idea di cosa sia, ma è a questo concetto che fa riferimento il titolo e dovrò pur tenerne conto.

Manifold Garden

Ciò che so per certo invece è che il manifold garden è uno spazio dove la fisica risponde a leggi del tutto diverse da quelle che conosciamo. A volte ho come l’impressione di trovarmi dentro un sogno di Escher che scopre di trovarsi all’interno di un cubo di Rubik dove il sopra, il sotto e i laterali assumono significati del tutto relativi e gli unici valori assoluti sono quelli dei colori. Provo a spiegarmi meglio: sei sono i colori presenti in questo mondo — giallo, rosso, azzurro, arancio, porpora, verde — e nessuno di questi ha una caratteristica specifica (oltre al colore in sé, evidentemente), ma ognuno, nel momento in cui viene “attivato” con un colpo di trigger su una parete, ha la proprietà di “spegnere” il moto degli oggetti di colore diverso. E per oggetti non intendo altri che gli strani frutti di cui parlavo prima (anche perché non c’è molto altro con cui interagire): quando posati su determinati slot, azionano circuiti e aprono porte a cui sono collegati e se decideste di girare la stanza, l’universo e tutto quanto, allora vedrete i cubi scolorirsi e fissarsi nel punto in cui li avete lasciati.

Più semplice a farsi che a dirsi, ve lo garantisco, e se poi doveste trovarvi in un posto all’apparenza irraggiungibile, potreste sempre buttarvi di sotto. Vi chiedo scusa per i miei modi un po’ sgarbati, ma è proprio ciò che dovreste fare quando non sapete proprio come proseguire. Diversamente da ciò che accade nella nostra realtà, nel manifold garden il salto nel baratro apre il cammino a nuove strade e nuove possibilità, ed è proprio in questi frangenti che appare chiaro come l’acqua l’ascendente che Portal è ancora in grado di esercitare su questo genere di produzioni.Manifold Garden

Ma mi si permetta una puntualizzazione su una differenza sostanziale: laddove il gioco di Valve fonde alla perfezione le meccaniche platform con quelle dei puzzle (forte delle diavolerie dell’havok engine), Manifold Garden rifugge da ogni sfida al tempismo e alla coordinazione neuromotoria del giocatore. L’attenzione è tutta concentrata sul puro e “semplice” ragionamento logico. Si tratta, infatti, di un rompicapo nella sua forma più autentica, e in questo aspetto risiede il suo merito principale, vale a dire nel bilanciamento della difficoltà e nella progressione della curva di apprendimento, la quale prosegue di pari passo all’immersione in uno scenario estetico via via sempre più complesso all’interno del quale viene inscenato, nel linguaggio astratto dei puzzle, il più classico dei conflitti manicheisti tra il bianco e il nero, che, come un’ombra di consistenza petroleosa, si espande quando non guardiamo e si ritrae al nostro passaggio, si condensa in ipercubi di materia oscura, crea glitch nella partitura della realtà.

È nel ritrovare l’armonia nelle cose che sta il nostro compito di bravi visitatori — nonché custodi — del giardino, giacché la lezione che possiamo trarre sulla natura degli indovinelli riguarda la loro straordinaria capacità di tradurre in forma astratta e intelligibile la complessità dei problemi concreti al fine di poterli risolvere e avanzare sul sentiero che si cela dietro di essi. Ma l’onere di scoprire in quale delle infinite pieghe il sentiero si snodi lo lascio a voi. 

Manifold Garden

Manifold Garden è un gioco ideato e sviluppato da William Chyr, artista americano noto per le sue installazioni “gonfiabili”. Il titolo ha rischiato di rimanere nel limbo degli indie mai realizzati a causa di alcuni problemi (soprattutto economici) e dell’inesperienza dello stesso Chyr, al quale si sono affiancati in un secondo momento Arthur Brussee, Tyler LaGrange, Aaron Mills, Sam Blye. Manifold Garden è infine arrivato, dopo anni di traversie su PC (nel 2019) e console (nel 2020) e ha conquistato i favori della critica con recensioni entusiastiche e diverse nomination come GOTY e miglior debutto. 



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